Dopo Mozart parte I Mozart parte II, Rossini e Bellini, andiamo avanti con la mia strampalata esperienza d’ascolto: oggi è la volta di Gaetano Donizetti.
Poco più vecchio di Bellini ma quasi schiacciato fra il genio catanese e la valanga melodrammatica verdiana, venne soprannominato “Dozzinetti” perché ebbe una produzione tanto nutrita da screditare e inflazionare il suo lavoro. L’ho sempre considerato un simpatico outsider, lo sfigato di turno che fuori dagli ambienti accademici riesce a farcela. In realtà la storia dell’Opera non sarebbe la stessa senza di lui, e Verdi non avrebbe avuto le solide basi di partenza che ha avuto per fondare la propria ascesa. Fu rivalutato solo nel Novecento, benché una sua opera buffa non abbia mai cessato di essere considerata un capolavoro: “L’elisir d’amore”.
Nacque a Bergamo nel 1797 da una famiglia di umili tessitori e Simone Mayr, che aveva fondato in città una scuola per giovani talenti squattrinati ed ebbe l’ottima idea di dispensargli delle “Lezioni caritatevoli di musica”, lo definì “dotato di propensione, talento e genio per la composizione, nonché di pronta fantasia e facilità nel concepire idee musicali non disadatte alla parola”.
La leggenda gli attribuisce una ancor oggi celebre canzone d’amore napoletana, che impazzava negli anni intorno al 1840 fra i vicoli della città partenopea, per lui una seconda patria: “Te voglio bene assaje”. Parla di un amore non corrisposto e diventò a tal punto un tormentone (forse il primo dell’era moderna) che in molti espressero la loro insofferenza. Insomma, fu un po’ il “Despacito” dell’epoca.
Ma veniamo a “L’elisir d’amore”, melodramma giocoso composto in meno di due settimane (più o meno quanto ci vuole a me per far un cambio di stagione negli armadi 🙄) e, inaspettatamente, accolto in maniera trionfale il 12 maggio 1832. Questa favoletta romantica dal sapore manzoniano (siamo negli anni delle prime versioni dei Promessi sposi), ambientata però nei paesi baschi, ricorda un po’ la belliniana Sonnambula, dell’anno prima. Fra i due musicisti c’era una forte rivalità e questo spinse Donizetti a premere sempre più sull’acceleratore della produzione, fino a comporre oltre settanta opere nella propria carriera.
L’opera narra la storia d’amore fra Nemorino (tenore) “coltivatore, giovine semplice” e Adina (soprano), “ricca e capricciosa fittaiuola”, corteggiata da Belcore (basso) “sergente di guarnigione del villaggio”.
All’inizio Nemorino ha dei seri problemi di autostima, aggravati dalla disparità sociale fra lui e la ragazza, come si può evincere dall’aria “Quanto è bella, quanto è cara”.
“Io son sempre un idiota, io non so che sospirar...”
Ma proprio in quel momento arriva nel villaggio il ciarlatano di turno, il dottor Dulcamara (basso) “medico ambulante” che espone in maniera istrionica le strabilianti doti del magico elisir che dà il titolo all’opera, presentato come la panacea di tutti i mali. Quest’aria, dalla comicità di stampo rossiniano, è un pezzo di bravura che costringe i bassi impegnati nel ruolo a sessioni massacranti di scioglilingua per entrare nel ruolo. “Ei move i paralitici, spedisce gli apopletici, gli asmatici, gli asfittici, gl’isterici, i diabetici... Comprate il mio specifico, per poco io ve lo do.”
“Udite, udite o rustici”
L’improvvisa indifferenza di Nemorino, che aspetta fiducioso i prodigiosi effetti dell’elisir, indispettisce a tal punto Adina, che decide di sposare subito Belcore. Dopo la consueta girandola di equivoci, eredità e arruolamenti, Nemorino crede di vedere negli occhi della ormai conquistata Adina una lacrima, che esprime tutta la gelosia della ragazza per il ricco e corteggiato giovanotto e, quindi, il suo amore.
“Una furtiva lagrima”, forse fra i pezzi d’opera più conosciuti e amati in assoluto, ci porta in un’aura di autentico romanticismo, tenero ma non stucchevole, che ben si adatta al carattere semplice ma non per questo rozzo di Nemorino. Arpa e fagotto condiscono il tutto. E finisce, come in ogni opera buffa, a tarallucci e vino!
Roberto Alagna 1997.
Sarei curiosa di sapere cosa direbbe un neuropsichiatra di questa affermazione di Donizetti: “Quando ho nella testa della musica buffa sento un picchio molesto alla parte sinistra della fronte; quando è musica seria sento la stessa molestia dalla parte destra”.
Proprio per un mal di testa il compositore si congedò da famiglia e ospiti in una sera d’estate del 1835 per ritirarsi in camera e comporre “Tu che a Dio spiegasti l’ali”, la celebre cabaletta finale della “Lucia di Lammermoor”, composta in 38 giorni e cantata il 26 settembre dello stesso anno a Napoli proprio da alcuni dei cantanti ospiti di quella sera a casa Donizetti.
Siamo negli anni della cotta romantica per la Scozia dei romanzi storici alla “Ivanohe”, infatti questo soggetto venne tratto da “The Bride of Lammermoor”di Walter Scott.
Opera intera, Devia alla Scala ‘92
La trama non si discosta molto da quella di Giulietta e Romeo: i due giovani Lucia e Edgardo (rispettivamente soprano e tenore, e come ti sbagli?) si amano nonostante appartengano a due famiglie rivali e si promettono eterno amore al momento di separarsi; lui infatti ha capito che, se non vuole essere eliminato dall’amorevole fratello di lei, Enrico (un baritono, come tutti i cattivi da Opera), deve fuggire in Francia, dai cui confini arriveranno i suoi sospiri ardenti all’indirizzo della fidanzata, e viceversa.
“Verranno a te sull’aure”: Callas e Di Stefano,
due mostri sacri.
due mostri sacri.
Però il fratello falsifica una lettera, fa credere a Lucia che Edgardo l’abbia tradita e la costringe a forza di inganni e ricatti a sposare il ricco Lord Arturo. A contratto matrimoniale firmato, arriva Edgardo che, spada alla mano, tiene a bada i rivali e nel frattempo riesce a farsi restituire l’anello e a maledire Lucia con tutta la sua stirpe (complimenti!).
E qui si potrebbe aprire una breve parentesi su come, nel mondo dell’Opera, manchi completamente il concetto di FIDUCIA e di INNOCENZA FINO A PROVA CONTRARIA. Comunque...
Mentre Edgardo ed Enrico, il cognato, si sfidano a duello, Lucia esce dalla camera nuziale con un pugnale in mano, pallida, scarmigliata e con la veste bianca macchiata di sangue: ha ucciso il neosposo Arturo.
In preda ad uno stato allucinatorio, Lucia canta la celebre “Aria della pazzia” aggirandosi fra gli ospiti ancora presenti nel salone, convinta di essere di fronte all’altare con Edgardo. La pazzia, che il Romanticismo in questi anni amava trattare insieme ad altre misteriose manifestazioni della psiche umana (per esempio il sonnambulismo), viene rappresentata attraverso i vocalizzi follemente virtuosistici della protagonista, che descrive il proprio delirio con un canto purissimo, fatto di scale sfrenate e surreali (dove trova posto anche un’eco malinconica di “Verranno a te sull’aure”), finché non si accascia al suolo.
“Ardon gli incensi” Natalie Dessay. Un vero cavallo di battaglia.
Saputo della morte della donna amata, Edgardo da bravo eroe romantico si uccide, non senza averle dedicato uno dei pezzi d’opera più noti, in onore dell’anima innocente dell’amata. Da lì a poco anche questa melodia avrebbe spopolato grazie agli organetti di Barberia (aridanghete con i tormentoni!).
“Tu che a Dio spiegasti l’ali” José Carreras
Donizetti negli anni successivi continuò a scrivere alacremente, benché si facessero già sentire i sintomi di un male, forse legato al morbo della sifilide, che lo portò alla morte. “La figlia del reggimento” e il “Don Pasquale” furono rappresentate a Parigi, città che lasciò per morire nella sua Bergamo l’8 aprile 1848.
Così si chiude questa puntata dell’”Opera per imbranati”, ditemi come al solito se conoscevate qualcuno di questi pezzi o avete qualcosa da aggiungere e cosa pensate del caro vecchio Gaetano!
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