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mercoledì 26 dicembre 2018

L’INDICE DI MALACHIA: FATE IL VOSTRO GIOCO di A. MANZINI

“Lo sai qual è secondo me la vera vacanza? Tornare per  un po’ di giorni a quando avevi 10 anni. Per una settimana avere la capoccia e il cervello di un regazzino, quell’energia. Niente pensieri, niente paure, solo giocare, correre  e fare cazzate. Ecco, quella è una vacanza, io dico... Tu giochi perché secondo me vuoi tornare a quegli anni, ma fidati di me, che a quegli anni non ci si torna più.”




Ho fatto conoscenza con il vicequestore Schiavone alcuni anni fa, in una raccolta di racconti a tema di  Sellerio, “Capodanno in giallo”. La ruvidezza, direi la sgradevolezza per quanto mista a fascino, del protagonista mi colpirono con un misto di attrazione-repulsione che si ripresenta ogni volta. 
Introdotta da una pagina-dedica molto d’effetto e instagrammatissima, l’ultima puntata in ordine di tempo della saga schiavonica mette sul tappeto, appunto, l’argomento della ludopatia su diversi fronti. Quello delle indagini (l’omicidio ha come sfondo l’ambiente del casino di Saint-Vincent), della sgangherata squadra della questura di Aosta, dove qualcuno sottrae oggetti per ripianare i debiti al gioco, e infine della vita privata di Rocco, che a sua volta si intreccia con le indagini.


Uno dei tanti post di Instagram che riportano la dedica al popolo dei lettori.


Anche in questo romanzo Manzini dimostra la propria maestria nel dipanare i vari fili della trama senza smettere di far sentire il battito del cuore della storia, che sa sempre di realtà, e nel caratterizzare con precisione anche i personaggi minori o di passaggio.
Portato senza dubbio ai decaloghi, anche qui ne mette uno in bocca a Schiavone, che questa volta illustra la sua etica personalizzata del furto, in cui ci sono soggetti da derubare lecitamente ma, soprattutto, l’importante è non farsi beccare. 



Ho impropriamente usato il termine puntata riguardo a questo libro: in realtà l’autore lascia sempre qualche filo in sospeso, non conclude il compitino per far contenta la maestra, non si porta avanti con la sceneggiatura della serie di Raidue (che lo vede fra gli autori).
“Una storia è fatta di dettagli, soprattutto se mi racconti un giallo” dice Schiavone/Manzini al suo pupillo, l’adolescente  Gabriele, in vena letteraria. 
Una soddisfazione personale: Schiavone come me non sopporta tutto ciò che ha a che fare con i cuochi. 



Un particolare divertente è il fatto che spesso Manzini continui insistentemente ad accennare ai capelli biondi di Caterina,  la ex collaboratrice di Schiavone interpretata nella serie dalla bruna Claudia Vismara. Che si apra un duello virtuale come quello di Camilleri fra il Montalbano  brunochiomato dei romanzi e il calvo Zingaretti della fiction televisiva?



Manzini non delude nemmeno questa volta, un libro che si legge con gusto, per i cultori del genere in attesa delle nuove puntate della serie con Giallini.

Tutte le foto sono prese dal web.


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domenica 14 ottobre 2018

RICETTE TOSCANE: IL BALDINO.

Il baldino è un dolce che non è dolce ma nemmeno salato, appartiene alla tradizione del Casentino, è senza glutine ed è di realizzazione molto semplice.

Immagine dal web
Da noi è un classico ma se non siete del posto una premessa è doverosa.
La valle del Casentino è ricca di foreste, in particolare di selve, come vengono chiamati qui i boschi di castagni.
Queste erano una vera manna per le classi più povere, cui la terra non regalava molto: i campi di grano, in un territorio prevalentemente montuoso, sono rari e un tempo erano proprietà quasi esclusiva dei benestanti, quindi nel periodo autunnale intere famiglie di estrazione popolare battevano palmo a palmo le selve per raccogliere le castagne che, asciugate in seccatoi per mezzo del calore del fuoco, potevano essere conservate, macinate e mangiate sotto forma di polenta oppure di baldino, (castagnaccio). 

Come diceva il proverbio: “Che tu mugoli o ‘n tu mugoli, pan di legno e vin di nugoli” Cioè, che ti vada bene o no, polenta di castagne e acqua.
Ovviamente se si poteva veniva aggiunta frutta secca autunnale, come l’uva passa, le noci e i pinoli.


INGREDIENTI:
300 g di farina di castagne.
Mezzo litro d’acqua.
Olio extravergine d’oliva.
Una manciata di uva passa.
Una manciata di pinoli.
Una manciata di gherigli di noci.
Rosmarino.
Un pizzico di sale.

Mettere l’uva passa a rinvenire in una tazza d’acqua calda.
Setacciare la farina di castagne (indispensabile per non formare grumi).
Aggiungere a poco a poco l’acqua alla farina, aggiungere un pizzico di sale e mescolare con una frusta.
Alcuni suggeriscono di far riposare una mezz’ora.



Prendere una teglia bassa e ungerla con olio extravergine d’oliva, spargere una parte del rosmarino, delle noci e/o pinoli.
Aggiungere al composto 7 cucchiai d’olio, l’uvetta, un altro po’ della frutta secca e rovesciarlo nella teglia.


Spargere sopra il resto dell’uvetta & company a decorazione, insieme al rosmarino.
Qualche giro d’olio sopra e infornare a 220 gradi per 35/40minuti.

Facile anche per me

Quando cuoce vi sembrerà di sentire odore di arrosto, in realtà è un ottimo dessert un po’ fuori dai canoni consueti.
Ovviamente non essendoci lievito non cresce e viene molto basso. Il colore è proprio quello della buccia della castagna con una superficie screpolata.


venerdì 3 agosto 2018

L’INDICE DI MALACHIA: LIBRI PRIMAVERA-ESTATE

Buongiorno! Oggi vi propongo una veloce carrellata fra i libri che ho letto in quest’ultimo periodo, quasi una sfilata primavera-estate. 


Arto Paasilinna, Piccoli suicidi fra amici 
Di questo autore finlandese avevo già letto il bellissimo “L’anno della lepre”. Questo libro affronta con nordica leggerezza il drammatico problema dei suicidi in Finlandia e in generale nei paesi del Nord Europa, civilissimi e benestanti ma lambiti solo per pochi mesi dell’anno dalla luce del sole, uno dei più potenti antidepressivi naturali. Riuscirà la "Libera Associazione Morituri Anonimi" a raggiungere l’agognata meta del suicidio di massa? Divertente, con freddezza.

AA.VV. Viaggiare in giallo
Sellerio offre spesso questi antipasti misti grazie ai quali è possibile assaggiare vari autori che si cimentano in racconti brevi con un tema comune (Natale, Capodanno, Ferragosto in giallo, per esempio). Il tema del viaggio offre ricchi spunti approfonditi stavolta da Alicia Giménez-Bartlett, Marco Malvaldi, Antonio Manzini, Francesco Recami, Alessandro Robecchi, Gaetano Savatteri. Consigliato a chi ama il giallo e desidera ampliare i propri confini approcciando nuovi autori.

Piero Chiara, La stanza del vescovo
La vera protagonista di questo romanzo è forse l’atmosfera di rinascita e di apertura a tutte le possibilità dell’immediato secondo dopoguerra. Un giovane bighellona in barca lungo le rive del lago Maggiore e cade nella tela di villa Cleofe, che custodisce, oltre alla camera che dà il titolo al libro, diversi segreti. Il giallo non è che una scusa per sviscerare la meschinità di un universo chiuso e torbido come le acque della darsena della villa. 

Antonio Manzini, 7-7-2007
Una pietra miliare nella saga di Rocco Schiavone, che qui racconta finalmente il giorno più brutto della sua vita, in cui ha perso la sua Marina. Sospiro.

Antonio Manzini, Pulvis et umbra
Non presente in foto ma polverizzato 🤪 nel frattempo. Il proseguimento della saga schiavonica. A pagina 60 il fondamentale vademecum su quando usare correttamente due eleganti intercalari romaneschi, “sticazzi” e “mecojoni”. Vietato sbagliare. Prossimamente su Raidue.

Guido Morselli, Divertimento 1889
La scrittura di Morselli è un miracolo di densità e leggerezza. Tutti i suoi libri sono stati pubblicati solo dopo il suicidio nel 1972. Toh, com’era bravo! Qui ci racconta la vacanza in incognito di un monarca declassato a Conte, fra avventure galanti e declino fisico, tratteggiando un ritratto molto umano e poco aulico di Umberto I. Di suo ho letto anche il disperato ”Dissipatio H. G.” Un genio, lo amo. 

Che dite, vi è piaciuto questo tipo di recensioni veloci?
Ditemi anche se volete approfondire qualche titolo!
A presto!


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martedì 17 luglio 2018

L'OPERA PER IMBRANATI: GAETANO DONIZETTI

Dopo Mozart parte I Mozart parte II, Rossini e Bellini, andiamo avanti con la mia strampalata esperienza d’ascolto: oggi è la volta di Gaetano Donizetti.


Poco più vecchio di Bellini ma quasi schiacciato fra il genio catanese e la valanga melodrammatica verdiana, venne soprannominato “Dozzinetti” perché ebbe una produzione tanto nutrita da screditare e inflazionare il suo lavoro. L’ho sempre considerato un simpatico outsider, lo sfigato di turno che fuori dagli ambienti accademici riesce a farcela. In realtà la storia dell’Opera non sarebbe la stessa senza di lui, e Verdi non avrebbe avuto le solide basi di partenza che ha avuto per fondare la propria ascesa. Fu rivalutato solo nel Novecento, benché una sua opera buffa non abbia mai cessato di essere considerata un capolavoro: “L’elisir d’amore”.

Nacque a Bergamo nel 1797 da una famiglia di umili tessitori e Simone Mayr, che aveva fondato in città una scuola per giovani talenti squattrinati ed ebbe l’ottima idea di dispensargli delle “Lezioni caritatevoli di musica”, lo definì “dotato di propensione, talento e genio per la composizione, nonché di pronta fantasia e facilità nel concepire idee musicali non disadatte alla parola”.


La leggenda gli attribuisce una ancor oggi celebre canzone d’amore napoletana, che impazzava negli anni intorno al 1840 fra i vicoli della città partenopea, per lui una seconda patria: “Te voglio bene assaje”. Parla di un amore non corrisposto e diventò a tal punto un tormentone (forse il primo dell’era moderna) che in molti espressero la loro insofferenza. Insomma, fu un po’ il “Despacito” dell’epoca.

Murolo non è un cantante lirico ma rende
 forse per questo giustizia al celebre canto popolare.

Ma veniamo a “L’elisir d’amore”, melodramma giocoso composto in meno di due settimane (più o meno quanto ci vuole a me per far un cambio di stagione negli armadi 🙄) e, inaspettatamente, accolto in maniera trionfale il 12 maggio 1832. Questa favoletta romantica dal sapore manzoniano (siamo negli anni delle prime versioni dei Promessi sposi), ambientata però nei paesi baschi, ricorda un po’ la belliniana Sonnambula, dell’anno prima. Fra i due musicisti c’era una forte rivalità e questo spinse Donizetti a premere sempre più sull’acceleratore della produzione, fino a comporre oltre settanta opere nella propria carriera.
L’opera narra la storia d’amore fra Nemorino (tenore) “coltivatore, giovine semplice” e Adina (soprano), “ricca e capricciosa fittaiuola”, corteggiata da Belcore (basso) “sergente di guarnigione del villaggio”. 

L’opera intera in una versione del 2012 con Villazòns

All’inizio Nemorino ha dei seri problemi di autostima, aggravati dalla disparità sociale fra lui e la ragazza, come si può evincere dall’aria “Quanto è bella, quanto è cara”.

L’eterno Pavarotti. Nutella per le mie orecchie.
“Io son sempre un idiota, io non so che sospirar...”

Ma proprio in quel momento arriva nel villaggio il ciarlatano di turno, il dottor Dulcamara (basso) “medico ambulante” che espone in maniera istrionica le strabilianti doti del magico elisir che dà il titolo all’opera, presentato come la panacea di tutti i mali. Quest’aria, dalla comicità di stampo rossiniano, è un pezzo di bravura che costringe i bassi impegnati nel ruolo a sessioni massacranti di scioglilingua per entrare nel ruolo. “Ei move i paralitici, spedisce gli apopletici, gli asmatici, gli asfittici, gl’isterici, i diabetici... Comprate il mio specifico, per poco io ve lo do.”


“Udite, udite o rustici”

L’improvvisa indifferenza di Nemorino, che aspetta fiducioso i prodigiosi effetti dell’elisir, indispettisce a tal punto Adina, che decide di sposare subito Belcore. Dopo la consueta girandola di equivoci, eredità e arruolamenti, Nemorino crede di vedere negli occhi della ormai conquistata Adina una lacrima, che esprime tutta la gelosia della ragazza per il ricco e corteggiato giovanotto e, quindi, il suo amore.
“Una furtiva lagrima”, forse fra i pezzi d’opera più conosciuti e amati in assoluto, ci porta in un’aura di autentico romanticismo, tenero ma non stucchevole, che ben si adatta al carattere semplice ma non per questo rozzo di Nemorino. Arpa e fagotto condiscono il tutto. E finisce, come in ogni opera buffa, a tarallucci e vino!

Roberto Alagna 1997.

Sarei curiosa di sapere cosa direbbe un neuropsichiatra di questa affermazione di Donizetti: “Quando ho nella testa della musica buffa sento un picchio molesto alla parte sinistra della fronte; quando è musica seria sento la stessa molestia dalla parte destra”. 
Proprio per un mal di testa il compositore si congedò da famiglia e ospiti in una sera d’estate del 1835 per ritirarsi in camera e comporre “Tu che a Dio spiegasti l’ali”, la celebre cabaletta finale della “Lucia di Lammermoor”, composta in 38 giorni  e cantata il 26 settembre dello stesso anno a Napoli proprio da alcuni dei cantanti ospiti di quella sera a casa Donizetti.
Siamo negli anni della cotta romantica per la Scozia dei romanzi storici alla “Ivanohe”, infatti questo soggetto venne tratto da “The Bride of Lammermoor”di Walter Scott.

Opera intera, Devia alla Scala ‘92

La trama non si discosta molto da quella di Giulietta e Romeo: i due giovani Lucia e Edgardo (rispettivamente soprano e tenore, e come ti sbagli?) si amano nonostante appartengano a due famiglie rivali e si promettono eterno amore al momento di separarsi; lui infatti ha capito che, se non vuole essere eliminato dall’amorevole fratello di lei, Enrico (un baritono, come tutti i cattivi da Opera), deve fuggire in Francia, dai cui confini arriveranno i suoi sospiri ardenti all’indirizzo della fidanzata, e viceversa.


“Verranno a te sull’aure”: Callas e Di Stefano, 
due mostri sacri.

Però il fratello falsifica una lettera, fa credere a Lucia che Edgardo l’abbia tradita e la costringe a forza di inganni e ricatti a sposare il ricco Lord Arturo. A contratto matrimoniale firmato, arriva Edgardo che, spada alla mano, tiene a bada i rivali e nel frattempo riesce a farsi restituire l’anello e a maledire Lucia con tutta la sua stirpe (complimenti!).
E qui si potrebbe aprire una breve parentesi su come, nel mondo dell’Opera, manchi completamente il concetto di FIDUCIA e di INNOCENZA FINO A PROVA CONTRARIA. Comunque...
Mentre Edgardo ed Enrico, il cognato, si sfidano a duello, Lucia esce dalla camera nuziale con un pugnale in mano, pallida, scarmigliata e con la veste bianca macchiata di sangue: ha ucciso il neosposo Arturo.
In preda ad uno stato allucinatorio, Lucia canta la celebre “Aria della pazzia” aggirandosi fra gli ospiti ancora presenti nel salone, convinta di essere di fronte all’altare con Edgardo. La pazzia, che il Romanticismo in questi anni amava trattare insieme ad altre misteriose manifestazioni della psiche umana (per esempio il sonnambulismo), viene rappresentata attraverso i vocalizzi follemente virtuosistici della protagonista, che descrive il proprio delirio con un canto purissimo, fatto di scale sfrenate e surreali (dove trova posto anche un’eco malinconica di “Verranno a te sull’aure”), finché non si accascia al suolo.


“Ardon gli incensi” Natalie Dessay. Un vero cavallo di battaglia. 

Saputo della morte della donna amata, Edgardo da bravo eroe romantico si uccide, non senza averle dedicato uno dei pezzi d’opera più noti, in onore dell’anima innocente dell’amata. Da lì a poco anche questa melodia avrebbe spopolato grazie agli organetti di Barberia (aridanghete con i tormentoni!).

“Tu che a Dio spiegasti l’ali” José Carreras

Donizetti negli anni successivi continuò a scrivere alacremente, benché si facessero già sentire i sintomi di un male, forse legato al morbo della sifilide, che lo portò alla morte. “La figlia del reggimento” e il “Don Pasquale” furono rappresentate a Parigi, città che lasciò per morire nella sua Bergamo l’8 aprile 1848.

Così si chiude questa puntata dell’”Opera per imbranati”, ditemi come al solito se conoscevate qualcuno di questi pezzi o avete qualcosa da aggiungere e cosa pensate del caro vecchio Gaetano! 



Chi scrive questa serie di post non è né una musicista né una musicologa. Se si è una di queste due cose, la lettura può nuocere gravemente alla salute. Segnalate eventuali sfondoni.

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