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venerdì 29 settembre 2017

DANIEL DAY-LEWIS: CRONACA DI UN PREPENSIONAMENTO ANNUNCIATO. PARTE I.


C'è chi ha proposto liste di attori che avrebbero potuto smettere di recitare al suo posto, tutti gli altri non se ne fanno una ragione ma lui, Daniel Day-Lewis, con quel doppio cognome, il naso aristocratico e una dose di talento attoriale veramente doppia, non ha mai parlato a vanvera. Se dice che si ritirerà  dalle scene, lo farà.


Come quando nel 1989, a metà di una replica dell'Amleto, abbandonò la scena per mai più calcare un palcoscenico teatrale, secondo alcuni perché avrebbe visto, come il principe danese, il fantasma del padre, morto quando lui aveva quindici anni.


Il poeta laureato Cecil Day-Lewis non fece dunque in tempo a vedere il figlio recitare sulle orme della madre, attrice di teatro nella migliore tradizione inglese. Ma la leggenda narra (la notizia non è accreditata) che l'esordio cinematografico fu sotto la stella del cinema di qualità, nella parte di un teppistello in una fugace comparsata in "Domenica, maledetta domenica" di John Schlesinger.

Daniel a destra, con i genitori e la sorella.
Il ruolo probabilmente non fu casuale, se è vero quello che in seguito dichiarerà: figlio di un poeta affascinato dal socialismo, venne mandato in scuole pubbliche in cui, per non farsi prendere di mira dai figli del popolo, dovette imitarli nel loro gergo e negli atteggiamenti aggressivi che li contraddistinguevano, così da dare il la a una carriera che già aveva nel sangue.

Quindi, corsi all'Old Vic Theatre di Londra e una serie di film per la TV inglese che già ne misero in luce il talento pignolo e caparbio nel tenere la traccia, fino a azzannare il personaggio da interpretare.

Il 1982 lo vede impegnato in un ruolo marginale ma, ancora, da bullo: in "Gandhi" fa passare un brutto momento al pacifista più famoso della storia.




Nel 1984 ancora un ruolo ingrato nel "Bounty", in cui giganteggia Anthony Hopkins come capitano e gigioneggia Mel Gibson come il bel ribelle, mentre a lui tocca la particina dell'ufficiale antipatico e artificialmente brizzolato.

Qui sembra Miguel Bosé.


Il 1985 è l'anno della svolta: Daniel interpreta dapprima un personaggio quasi comico, ingessato e letterario, il Cecilio di "Camera con vista", film di Ivory dal bel romanzo di E.M. Forster,  un fidanzato dei primi del Novecento freddo e compassato che non regge il confronto con il tormentato e impulsivo ragazzo conosciuto dalla protagonista in Italia. Mio film di culto anche per le splendide scene fiorentine e la colonna sonora di Puccini ("O mio babbino caro").




Nello stesso anno gira "My Beautiful Laundrette", di Stephen Frears, uno dei film più delicati girati sul tema del razzismo e dell'omosessualità. Ancora bullo di quartiere ma dal cuore tenero. 




Altro salto di qualità quando, nel 1988, incarna il chirurgo sciupafemmine nella trasposizione cinematografica del caso letterario dell’epoca, “L’insostenibile leggerezza dell’essere” di Milan Kundera, con Juliette Binoche.




Ma la fama mondiale lo investe quando interpreta il ruolo dell'artista tetraplegico Christy Brown ne "Il mio piede sinistro", di Jim Sheridan, vincendo il suo primo Oscar nel 1990. Per interpretare questo personaggio, l'attore non scendeva mai, nemmeno nelle pause di lavorazione, dalla sedia a rotelle, mantenendo la postura rattrappita del protagonista ed è proprio questa full immersion nei ruoli di volta in volta interpretati la cifra distintiva del suo essere attore.




Il cambiamento è un'altra delle sue caratteristiche: non un ruolo nemmeno lontanamente simile all'altro, tanto che in Italia non riusciamo ad assegnargli un doppiatore stabile. Chi potrebbe immaginare Harrison Ford o Tom Cruise senza la loro "voce"? Daniel Day-Lewis cambia in maniera così repentina in ogni film, che non sembra essere la stessa persona, non ha una faccia e una voce propria.

Ma lasciamo per la prossima volta i film più recenti. 

Fatemi sapere se conoscevate questo attore, avete visto qualcuno di questi film o se vi ho messo voglia di vederne uno in particolare.  Alla prossima!



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martedì 19 settembre 2017

L'INDICE DI MALACHIA: NEL SEGNO DELLA PECORA DI MURAKAMI HARUKI

"Erano gli anni dei Doors, dei Rolling Stones, dei Byrds, dei Deep Purple, dei Moody Blues. C'era qualcosa di esaltante nell'aria, si aveva l'impressione che bastasse una spallata per far crollare tante cose. Bevevamo cattivo whisky, facevamo goffamente sesso, ci perdevamo in discussioni sconclusionate, ci scambiavamo libri... così passavamo le nostre giornate. E intanto su quei maldestri anni Sessanta calava scricchiolando il sipario."

Qualcuno mi spiega il disegno di questa copertina?

Sono una grande fan di Haruki Murakami, o Murakami Haruki che dir si voglia (i giapponesi mettono prima il cognome e poi il nome, non solo nei documenti ufficiali). Ho letto quello che è considerato, se non il suo capolavoro, sicuramente il suo lavoro più ambizioso, "1Q84", quando era ancora in corso di pubblicazione e mi sono trovata ad attendere l'ultima parte come una casalinga di Voghera che aspetti di sapere chi sposerà stavolta Ridge. Ho quasi pianto quando non gli hanno dato il Nobel per la letteratura. Quindi non aspettatevi stroncature da me. Rivolgetevi altrove.

"Nel segno della pecora" è un romanzo di circa 300 pagine del 1982, pubblicato in Italia solo dieci anni dopo; il terzo di questo autore fortemente influenzato dalla cultura occidentale, in particolare dalla musica -tanto da aprire un jazz bar a Tokyo negli anni Settanta- e dalla letteratura, diventando il traduttore di Raymond Chandler.


Come dice la traduttrice Antonietta Pastore nella recensione al libro: "... introduce molti dei temi cari all'autore: la solitudine dell'uomo, l'arroganza e lo strapotere della politica, la nostalgia per l'atmosfera esaltante degli anni Sessanta, la passione per il rock e il jazz, l'irrompere del surreale nella prosaicità della vita quotidiana."
Aggiungerei anche il mito dell'amicizia: in tutti i suoi romanzi Murakami rievoca con nostalgia i gruppi di amici dei tempi del liceo o dell'università. In questo caso il libro comincia con il funerale di una di questi e continua con la ricerca di una pecora grazie a indizi disseminati da un altro amico, il non meglio identificato Sorcio (che compare anche nei due romanzi precedenti).
Il protagonista, che non ha nome, si autodefinisce insignificante ma in realtà, come gli altri protagonisti dei romanzi di Murakami, e come ogni artista degno di questo nome, non esita a mettere in discussione l'intera sua vita per correre dietro ad una chimera.



Un giorno infatti un fantomatico Maestro, un'eminenza grigia della politica giapponese ormai agonizzante, gli impone tramite il suo inquietante segretario la bizzarra ricerca di un ovino, caratterizzato da una stella sulla groppa, ritratto in una foto che lui, pubblicitario fallito, ha inconsapevolmente pubblicato in una newsletter. Come sempre ad un certo punto l'elemento soprannaturale complica, o risolve, la situazione e culla il lettore come un bambino che ascolti la novella della sera, magari di quelle con il brivido finale. Quindi abbiamo anche delle stupende orecchie dagli speciali poteri e un Uomo Pecora veramente simpatico.



Nel mezzo, la nostalgia per il tratto di costa quasi completamente eliminato a Tokyo da terrapieni e grattacieli, e un autista cristiano che ha il numero di telefono di Dio. Come avrete capito, Murakami non fa solo sognare e pensare ma anche ridere e sorridere. Il tutto con una precisione scientifica, di dati e dettagli tecnici riguardo a tutti gli argomenti trattati, davvero strabiliante.

Spero di avervi incuriosito riguardo a questo libro e al suo autore, fatemi sapere se lo conoscete e eventualmente cosa avete letto.

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giovedì 14 settembre 2017

L'INDICE DI MALACHIA: LA CAMERA AZZURRA di GEORGE SIMENON.

"La camera era azzurra, di un azzurro, aveva notato un giorno, simile a quello della liscivia. Un azzurro che lo riportava all'infanzia, ai sacchetti di tela grezza pieni di polvere colorata che sua madre diluiva nella tinozza del bucato prima di risciacquare la biancheria e stenderla sull'erba scintillante del prato."



Lo scrittore Mario Fortunato definisce questo libro del 1963 "...forse uno dei migliori Simenon che si siano letti. Ed è quasi insopportabile per quanto è bello." Definizione incontestabile.
La camera del titolo si trova nell'Hôtel des Voyageurs in un paese della provincia francese e questa storia, intitolata inizialmente "Gli amanti frenetici", ci porta a piccoli passi, attraverso i ricordi e le dichiarazioni al giudice del protagonista Tony Falcone, verso il baratro di una apparentemente banale e squallida relazione extraconiugale
Tony è un immigrato italiano di seconda generazione, accettato dai compaesani fintantoché non interviene l'inciampo, lo scandalo.
Andreé è una vitale giovane donna di provincia. Entrambi sono sposati e hanno una relazione che oggi definiremmo torrida ma che Simenon, con l'eleganza della sua scrittura, rende concretamente evanescente, sensuale ma non superficiale, carnalmente spirituale.

"Davvero potresti vivere con me tutta la vita?"
"Certo..."
"Sul serio? Non avresti un po' paura?"
"Paura di che?"
"Riesci a immaginare come passeremmo le giornate?"
Anche quelle parole sarebbero riemerse, così leggere allora, così minacciose a distanza di qualche mese.


Simenon padroneggia perfettamente l'intreccio fra piani temporali diversi (il presente dell'interrogatorio, il passato prossimo della vicenda amorosa e quello remoto dell'infanzia e adolescenza dei protagonisti) e contemporaneamente il divario psicologico fra il racconto di Tony,  che trasuda affetti e pulsioni opposte, e la clinica freddezza dell'interrogatorio. Alla fine le fila del racconto vengono tirate con ammirevole maestria e ci troviamo a contemplare gli effetti della formidabile furia delle passioni, quasi superstiti di un ciclone tropicale.



"Con quelle due o tre ore al giorno di interrogatorio, come potevano sperare di conoscere a fondo, in qualche settimana, o anche in qualche mese, una vita così diversa dalla loro? Non solo la vita sua e di Gisèle, ma anche quella di Andrée, della signora Despierre, della signorina Formier, la vita del paese, gli andirivieni fra Saint-Justin e Triant. Già per capire la camera azzurra ci sarebbe voluto..."


  Ho lasciato molto all'immaginazione ma non voglio, o meglio, non riesco a rendere il fascino di questo libro a parole. Potrei anche rivelarvi la trama riga per riga senza rovinarvelo, perché si sa, il valore di un libro non è tanto nella trama, quanto nella profondità con la quale vengono raccontate le vicende, e qui si arriva al nocciolo.


Ditemi se avete letto questo libro di Simenon "non Maigret" o se vi ho fatto venir voglia di leggerlo. Suggerite anche nuove letture, sono curiosissima!


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